Regia: Ferzan Özpetek
Attori: Halit Ergenç - Orhan, Tuba Büyüküstün - Neval, Nejat Isler - Deniz, Mehmet Günsür - Yusuf, Serra Yilmaz - Sibel, Cigdem Onat - Süreyya, Zerrin Tekindor - Aylin
Soggetto: Gianni Romoli, Ferzan Özpetek
Sceneggiatura: Gianni Romoli, Valia Santella, Ferzan Özpetek
Fotografia: Gian Filippo Corticelli, Luigi Andrei - (operatore)
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Montaggio: Patrizio Marone
Scenografia: Deniz Göktürk Kobanbay
Costumi: Funda Buyuktunalioglu
Suono: Sertac Muldur - (fonico di presa diretta)
ITALIA / TURCHIA 2017 - 115 min.
Produzione:
TILDE CORSI E GIANNI ROMOLI PER R&C PRODUZIONI, FAROS FILM, BKM, IMAJ, CON RAI CINEMADistribuzione: 01 DISTRIBUTION
liberamente tratto dal romanzo omonimo di Ferzan Ozpetek (ed. Mondadori, coll. Strade blu. Non Fiction)
Lo scrittore Orhan Sahin, che vive all'estero da anni, torna a Istanbul su invito del famoso regista Deniz Soysal per lavorare al suo libro. Deniz vive con la sua famiglia, ormai al crepuscolo della ricchezza, in uno Yali sul Bosforo. Fin dal primo giorno, Orhan si trova avvolto in una fitta tela di relazioni complesse e misteriose tra gli amici e i familiari di Deniz e mentre riscopre Istanbul con occhi nuovi, cominciano anche a riaccendersi sentimenti da tempo sopiti.
CRITICA
"Siamo
in un luogo letterario, alla Pamuk e ogni riferimento al Museo
dell'Innocenza non sembra casuale. (...) Personaggi in cerca di autore e
di un «museo» dove lasciare in pace i ricordi secondo un'innegabile
buona fede interiore che porta il regista a rinnovare i suoi stereotipi
(la tavolata in famiglia) e ad eccedere in massime di romanticismo
spicciolo che, scritte con la Santella e Romoli, fanno di sicuro miglior
effetto. Gli attori, mitici in patria, sono bravissimi e cercano di
reggere il gioco delle ombre, specie Halit Ergenç e Cigdem Onat, la cui
dolce, dolente immagine si sovrappone a quella della mamma di Ferzan e a
ogni mamma del mondo."
(Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 2 marzo
2017)
"Conoscendo Ferzan Ozpetek, si potrebbe scommettere sulla sincerità che
ha messo nello scrivere il suo romanzo semi-autobiografico 'Rosso
Istanbul' e nel dirigere il film omonimo; e tuttavia il secondo lascia
una sensazione di artefatto e di occasione mancata. (...) All'inizio
sembra che l'undicesimo film di Ozpetek aspiri a essere un'elegia alla
megalopoli turca, sospesa tra arcaismi e modernità (...). Ozpetek si
aggira per gli ambienti dell'intellighenzia e fa pronunciare ai
personaggi frasi sentenziose; corrette, però, da un velo d'autoironia.
Con la scomparsa di Deniz anche l'ironia scompare. Si moltiplicano le
sentenze, invece: una quantità di aforismi da bigino, che danno agli
scambi verbali un tono artificioso e improbabile. (...) Nella seconda
parte il film si fa sempre più rarefatto, caricandosi di simboli ( la
traversata a nuoto del Bosforo ) e avventurandosi nei territori del
realismo magico caro al regista. A momenti la rappresentazione di
Istanbul è suggestiva; i suoni e i colori sono perfetti per suggerire
una cultura che ci è prossima e lontana a un tempo. Delude, però, che si
tratti solo di accenni; mentre le parole continuano a dilagare in
massime che difficilmente piacerebbero all'omonimo di Ohran, il Nobel
turco Pamuk. Qua e là si affacciano alcuni riferimenti alla difficile
situazione politica del Paese (ma è giusto considerare che le riprese
sono terminate prima del fallito golpe militare, e successivo giro di
vite): perquisizioni poliziesche, le 'madri del sabato', il breve
episodio di un profugo curdo. Però Ozpetek vi dedica solo un interesse
marginale, preferendo attrarti in un enigma privato senza soluzione; e,
francamente, non troppo appassionante. Tra i bei volti di attori turchi
nuovi per le nostre parti, riconosciamo quello della simpatica Serra
Yilmaz, attrice abituale del regista. Con un bizzarro paradosso. Mentre
lei doppia se stessa col caratteristico accento di sempre, gli altri,
che probabilmente non conoscono affatto la nostra lingua, sfoggiano una
dizione italiana perfetta."
(Roberto Nepoti, 'La Repubblica', 2 marzo
2017)
"La villa sul Bosforo traboccante di memorie, l'affascinante concertato
di figure femminili, la miscela di Oriente e Occidente, il tumulto dei
sensi, la passione omosessuale, il mistero, il dolore: sono elementi
integranti del mondo poetico di Ozpetek, un cineasta che amiamo; ma nel
suo ondivago peregrinare nei luoghi e nei tempi, il film perde di vista
la costruzione dei personaggi e le emozioni non vibrano come altre
volte."
(Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 2 marzo 2017)
"Questo di Ferzan Ozpetek è un ritorno speciale in Turchia: torna per
realizzare un film e la messa in scena di vari livelli di sdoppiamento:
di chi va via dal suo paese per poi tornare, della scrittura e della
regia, dell'autore e dell'attore. (...) È corale la presenza delle donne
(...). Sfuggente la comparsa degli uomini. Il protagonista è come
sdoppiato nella presenza-assenza di Deniz che rappresenta quello che
Orhan sarebbe potuto diventare restando a Istanbul, con i suoi rapporti
stropicciati dal tempo. Gli sceneggiatori svelano acutamente questo
sottotesto attraverso elementi letterari, evocando le parole di sir
Douglas nei confronti di Wilde, i suoi crudeli ripensamenti.
Douglas/Wilde: un'altra delle dicotomie del film che affiorano
precisamente nei dialoghi. E a creare un senso di maggiore comunità
compare la figura di Yusuf chiara contaminazione dal primo Fassbinder.
Colpiranno nel film le numerose riprese fatte riprendendo di spalla gli
attori, soprattutto del protagonista (...), espediente che ci accompagna
a scoprire, penetrare nel profondo di un'emozione nascosta e
dimenticata, ma anche a presentare la magnificenza del paesaggio,
l'eleganza avita di una veranda, la più nascosta forma mentis di un
autore che nell'intimo della sua creatività accumula indizi, ritagli,
nomi e ricordi per trasformarli in «opera». Del film infatti dopo aver
colto l'elemento quasi poliziesco di una scomparsa sospetta, appare
evidente l'elemento del processo creativo dove si espongono i vari
spunti che dolorosamente arrivano a comporre l'opera. (...) Di terribile
tensione drammatica sono i film turchi che abbiamo visto negli ultimi
anni, periferie in fiamme, occultamenti e sparizioni, combattimenti,
situazioni esplosive. Ozpetek che ha sfiorato da quarantun anni la
mollezza italica, ora che quella dolcezza è diventata avvelenata, può
solo suggerire allo spettatore straniero (...) brandelli di durezza
poliziesca, la realtà degli uomini scomparsi nel nulla (a cominciare da
Deniz) e reclamati ogni sabato da vent'anni dalle madri in piazza
Galatasaray, la distruzione dei villaggi. E soprattutto in una scena
chiave e fulminea il fondamentalismo inchiodato come incubo inaspettato.
Alla malinconia del racconto è legato il manto d'acqua, il Bosforo che
separa Asia ed Europa. Per attraversare quel tratto di mare a nuoto ci
vuole un certo coraggio, come anche per entrare nelle acque profonde di
questo film."
(Silvana Silvestri, 'Il Manifesto', 2 marzo 2017)
"(...) Ferzan Ozpetek alterna da anni un film ostico a qualcosa di più
accessibile. Questo è quello ostico. Ma attenzione: in alcuni momenti
l'undicesimo lungometraggio del regista de 'Le fate ignoranti' e 'Mine
vaganti' è il cinema più bello del mondo perché fatto di sguardi che
aprono mondi, misteri legati ad altri ma che però vedono noi al centro
del delitto (la lezione del maestro Hitchcock, un riferimento sia per
Ozpetek che Almodóvar) e dialoghi commoventi (...). Gli attori sono
sconosciuti (per noi) perché turchi (in patria sono star). Ma che bravi
sia Ergenç che Tuba Büyüküstün (...). Rimane solo Serra Yilmaz (mai cosi
fredda e sarcastica in un suo film) come unico attore feticcio della
filmografia 'italiana'. (...) elegante rompicapo sensualmente sfuggente
simile, per certi versi, al dramma sulle ferite del passato 'Manchester
by the Sea'. La sensazione è che mai come in questo caso Ozpetek,
coadiuvato in sceneggiatura dal sodale di sempre Gianni Romoli in
compagnia di Valia Santella, abbia voluto erigere delle barriere tra noi
e il cuore sacro del film. Chissà cosa si nasconde dentro 'Rosso
Istanbul'."
(Francesco AIò, 'Il Messaggero', 2 marzo 2017)
"(...) un Ferzan tornato alle (sconosciute) origini, catapultato in un
paese (quello di Erdogan) del quale nulla comprende e nulla ci fa
capire, diventa un autore in cerca d'autore che disorienta tutti, anche
il suo pubblico più fedele (persino i «catturati» dalle 'Fate
ignoranti')."
(Giorgio Carbone, 'Libero', 2 marzo 2017)
"Pretenzioso, barboso dramma, parzialmente autobiografico e interamente
incomprensibile (...)".
(Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 2 marzo
2017)
"Il talento visionario di Ozpetek è intimidito nel suo undicesimo film
dal forte background letterario. Fenomeno strano perché «Rosso Istanbul»
è l'adattamento dell'omonimo romanzo semiautobiografico (...) in cui il
regista, tornato nella città natale lasciata per trasferirsi a Roma
quarantuno anni prima, cerca di dialogare con le ombre del passato per
esorcizzare la condizione presente di straniero in patria. Peccato,
però, che l'intreccio messo in scena introducendo il nuovo personaggio
dell'editor Orhan non si discosta come avrebbe potuto dal cinema
(presunto) proustiano e quindi non arriva a far vibrare sino in fondo le
sia pure sentite corde della sovrapposizione che spesso si verifica a
un certo punto della vita tra paura e desiderio, menzogna e verità,
realtà e nostalgia. Nell'apprezzabile intenzione di muovere le pedine
della storia su una mappa ricca di uscite thriller e altrettante mélo,
Ozpetek immagina che proprio il tormentato Orhan sia tornato da un
prolungato esilio londinese per supportare il regista Deniz nella
stesura del suo primo libro (...). Succede che ci senta attratti dal
pellegrinaggio enigmatico e sonnambolico di Orhan, ma che poi a spegnere
il coinvolgimento provvedano le frasette saputelle infarcite senza
misura nel dialogo. (...) starebbero benissimo, infatti, in uno
spudorato film hollywoodiano anni Quaranta ma non in «Rosso Istanbul»
dove i personaggi sono in fondo trattenuti con le briglie dell'impegno e
l'ingombrante situazione politica odierna legittimamente cacciata dalla
porta- rientra a casaccio dalla finestra come dimostrano le posticce
sequenze degli sfollati curdi e delle «madri del sabato». Il fascino
contaminato e sensuale della città, infine, risalta solo a tratti (...)
mentre si sprigiona adeguatamente dalla colonna sonora (fantastico il
lavoro del sound designer Sertac Muldur) e, grazie alla bravura degli
interpreti turchi, dai primi piani ottimi e abbondanti. Ellissi,
riflessi, trompe-l'oeil, il kitsch ibridato al pathos, il mix energetico
di Oriente e Occidente, il blu del mare e il rosso del sesso...
Prendere o lasciare: è Ferzan Ozpetek."
(Valerio Caprara, 'Il Mattino', 3
marzo 2017)